Rilanciare il Pensiero Cristiano Conservatore e Identitario

Lectio Magistralis di mons. Antonio Suetta al forum "Le Tavole di Assisi" - 9/10 Settembre 2023

Buona sera a tutti e grazie per avermi invitato a questo incontro così qualificato e conveniente rispetto al momento presente tanto nella società civile come nella cultura e nella vita ecclesiale.
Non ho certamente competenze specifiche in ordine alle molteplici tematiche in programma e pertanto il mio intervento ha il senso di un contributo di riflessione da parte di un pastore d’anime, che quotidianamente cerca di comprendere la complessità attuale e si sforza di indicare ai credenti la luce perenne della rivelazione e di offrire anche ai non credenti spunti di riflessione capaci di spingere ad alzare lo sguardo e ad andare oltre.
Il senso della mia partecipazione è anche condivisione sincera per temi che mi appassionano e fraterno incoraggiamento a chi oggi ancora osa indicare in Gesù Cristo la fonte della sapienza e il mistero che svela l’uomo all’uomo (cfr. GS 22). “Il compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell'uomo, di indirizzare la coscienza e l'esperienza di tutta l'umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Redenzione, che avviene in Cristo Gesù.
Contemporaneamente, si tocca anche la più profonda sfera dell'uomo, la sfera - intendiamo - dei cuori umani, delle coscienze umane e delle vicende umane (RH 10).

Il tema generale di questo incontro “rilanciare il pensiero cristiano conservatore e identitario” è davvero coraggioso e adeguato nonostante la gratuita antipatia che può suscitare nel generale contesto della cultura dominante; in ragione di ciò appare ancor più urgente e necessario.
Ritengo opportuno, pur considerando che si possano legittimamente ricondurre a generici e fondamentali “principi cristiani” molteplici e variegate visioni politiche, culturali e antropologiche, ricordare che nel mio discorso intenderò sempre “pensiero cristiano” come un’attitudine credente e cattolica: ciò non preclude affatto né il dialogo né la cooperazione, anzi - a mio parere -, ne garantisce autenticità e chiarezza.

  La temperie culturale contemporanea sembra rifiutare categoricamente il contributo del pensiero cattolico e lo fa talvolta con un’opposizione diretta e violenta, talvolta con il tentativo, ancor più pernicioso, di assumere un generico riferimento ai valori cristiani in maniera avulsa dalla sua organicità dottrinale e dalla sua imprescindibile concretizzazione storica nell’esperienza della Chiesa. Un abbraccio del genere risulta spesso più mortifero della contrapposizione frontale in quanto tende ad annacquare e snaturare la forza trasformante della fede.

  Non dobbiamo dimenticare che non si tratta semplicemente di confronto o dibattito culturale, ma di un vero e proprio combattimento spirituale e pacifico: la “buona battaglia della fede”, di cui parla San Paolo. Oggi con troppa disinvoltura e una buona dose di incantata superficialità si tende ad indicare nella fraternità culturale la migliore possibilità di una responsabilità condivisa per l’edificazione di un mondo pacificato e giusto. Io preferisco guardare all’impegno, anche politico, per la promozione di un’autentica umanità in termini di appartenenza riferendomi alla esperienza di fede e alla missione della Chiesa.
Il concetto di fraternità culturale rischia di ridurre l’avventura cristiana ad una mera ideologia destinata a stare accanto ad altre e magari, si dice oggi, in un progressivo arricchimento reciproco; l’appartenenza, al contrario, rimanda innanzitutto alla grazia di un incontro trasformante e performante e consegna una dottrina in grado di elevare la ragione umana al fulgore della sapienza divina. E tra queste non v’è contraddizione né la configurazione dogmatica della fede cristiana umilia l’intelligenza dell’uomo in quanto il concetto di rivelazione, fondandosi sulla sana teologia della creazione e dell’incarnazione, ne conduce ad una feconda e liberante sintesi, ben illustrata da San Giovanni Paolo II nella Veritatis Splendor.
Mi rendo conto di entrare a gamba tesa, come si dice, “in medias res”, ma ritengo che un punto nodale relativo al tema della presenza cristiana nella società richieda una consapevolezza e una franchezza di questo tipo.

Aggiungo a questo primo spunto due osservazioni attingendo da riferimenti biblici.
Il primo dalla lettera paolina agli Efesini: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (6, 12).
Il compianto Card. Carlo Cafarra in un memorabile intervento al Rome Life Forum (19 maggio 2017) aveva ben argomentato come sia necessario considerare il cammino della storia umana alla luce della divina rivelazione e con migliore profondità trascendente. Eccone una breve citazione:
“Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv12, 32). “Tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” (1Gv 5,19). Accostando queste divine parole, abbiamo la perfetta conoscenza di ciò che sta realmente accadendo nel mondo, dentro la storia umana considerata nella sua profondità. La storia umana è lo scontro fra due forze: la forza di attrazione che ha la sua sorgente nel Cuore trafitto del Crocefisso-Risorto; il potere di Satana che non vuole essere spodestato dal suo regno. Il campo sul quale avviene lo scontro è il cuore umano, è la libertà umana. E lo scontro ha due dimensioni: una dimensione interiore; una dimensione esteriore”.
 
Il secondo attinge da un’omelia di San Giovanni Crisostomo (Om. 15, 6. 7; PG 57, 231-232), che, presentando il tema, sempre attuale, del cristiano come sale della terra, offre questa precisazione: “Non crediate, sembra dire, di essere chiamati a piccole lotte e a compiere imprese da poco. No. Voi siete: «il sale della terra». A che cosa li portò questa prerogativa? Forse a risanare ciò che era diventato marcio? No, certo. Il sale non salva ciò che è putrefatto. Gli apostoli non hanno fatto questo. Ma prima Dio rinnovava i cuori e li liberava dalla corruzione, poi li affidava agli apostoli, allora essi diventavano veramente «il sale della terra» mantenendo e conservando gli uomini nella nuova vita ricevuta dal Signore. È opera di Cristo liberare gli uomini dalla corruzione del peccato, ma impedire di ricadere nel precedente stato di miseria spetta alla sollecitudine e agli sforzi degli apostoli”.

  A questo punto cerco di trarre una prima conclusione affermando che anche l’approccio politico del cristiano, inteso sia come criterio/giudizio sia come impegno diretto, non possa e non debba prescindere da una rigorosa conoscenza e accoglienza della verità rivelata; ciò non esclude ovviamente il necessario sviluppo della riflessione connesso alle situazioni contingenti, il confronto sereno e la cooperazione con altri modelli culturali e la sapiente mediazione, che, nella perseveranza fedele e nella generosa pazienza, caratterizza l’attività politica, definita da Pio XI come “la più alta forma di carità”, espressione poi ripresa dai Papi successivi.
Eccone la citazione completa: “E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutte le società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore… tutti i cristiani sono obbligati ad impegnarsi politicamente. La politica è la forma più alta di carità, seconda sola alla carità religiosa verso Dio” (L’Osservatore Romano, 23 dicembre 1927, n. 296, 3, coll. 1-4).
Al di là del contesto specifico di riferimento e del linguaggio del tempo, trovo simpatico e utile far sentire la freschezza e la chiarezza delle parole di Leone XIII nella prima enciclica sociale “Rerum novarum” del 1891: “Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro pieno diritto; giacché si tratta di questione di cui non è possibile trovare una risoluzione che valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e la dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa è affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro ufficio, tacendo. Certamente la soluzione di si arduo problema richiede il concorso e l'efficace cooperazione anche degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo che, se si prescinde dall'azione della Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno vani. Difatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo d'illuminare la mente, ma d'informare la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario; vuole e brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi degli operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse leggi e l'autorità dello Stato” (13).
  L’aggettivo “conservatore” collegato ad un pensiero o ad un individuo oggi, gratuitamente e pregiudizialmente, suona come nota stonata, espressione di un giudizio negativo tanto nella società civile quanto purtroppo in molta teologia e prassi ecclesiale, ritenuto talvolta assolutamente incompatibile con le esigenze del progresso e di un’autentica fedeltà al Vangelo.

Ad esempio di una tale corrente di pensiero, che oggi va per la maggiore, faccio riferimento ad un recente intervento di A. Grillo, docente di sacramentaria presso l’Ateneo Sant’Anselmo e saggista, a Camaldoli (18.08.23). Egli, trattando il tema “Una Chiesa fuori di sé: crisi e sfide”, interpreta la crisi attuale della Chiesa in relazione ad un cambiamento del cuore della società, che passa da “società dell’onore” (fondata sul principio della differenza) a “società della dignità” (fondata sul principio dell’eguaglianza). Il passaggio, evidentemente giudicato soltanto positivo, fa cambiare l’idea di libertà e di autorità e fa nascere una rilettura dei soggetti e degli oggetti. Lo definisce “un passaggio epocale, che inaugura le forme di vita a cui oggi siamo legati in buona parte del mondo cosiddetto ‘avanzato’, o per dire meglio, nella cosiddetta ‘società aperta’ (nella quale l’identità non è prestabilita in modo assoluto”.
Continuo ancora un attimo nella citazione, sperando di non tediare, in quanto il concetto espresso conduce al cuore della questione: “La crisi delle fedi e della forma cattolica dipende, in larga parte, da questa nuova forma di società. La società aperta non predetermina i destini, le identità, le funzioni, i mestieri, le vocazioni. Li affida alla libertà (sempre in cerca di autorità e nel dramma di un riconoscimento non più assicurato a priori). La tentazione, per tutte le chiese, e per la chiesa cattolica in modo particolare, è di sancire un’alleanza difensiva con la società dell’onore, per poter dire se stessa secondo la “tradizione” (elaborata in secoli di società dell’onore). Le differenze fondamentali, che si implicano una con l’altra, sono tre: differenza tra Dio e uomo, tra maschio e femmina, tra chierici e laici. Difendere queste differenze si identifica, purtroppo, con la difesa del vangelo. Qui sta l’errore più grave e più difficile da superare. Ci siamo convinti, da 200 anni, che la custodia del divino consista nel conservare la società ingiusta”.

Penso non occorra aggiungere molto per comprendere quanto acuta e profonda sia la vera crisi, in cui oggi versano la concezione cattolica della vita e il cammino della Chiesa. L’esempio mostra chiaramente come un pur nobile tentativo di confronto e di dialogo con il mondo e la sua cultura dominante - il famoso pensiero unico - rischi di fatto di cadere e scadere in una rovinosa cesura con il passato e in una quasi completa perdita dei contenuti essenziali della fede e dunque della fede stessa, perlomeno in senso autenticamente cattolico.
È doveroso evidenziare che per “passato” non intendo le tradizioni (al plurale) o le molteplici concretizzazioni storiche del cristianesimo, ma piuttosto le “radici”. Radici in senso proprio teologico sono essenzialmente i contenuti - non solamente dottrina - della Rivelazione divina: essi sono sempre vivi nella vita stessa della Chiesa, che li attinge e li custodisce dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione.
Radici sono anche i frutti della bimillenaria civiltà cristiana che, ben lungi dall’essere dominazione culturale, ha saputo offrire al mondo intero e non solo all’occidente un prezioso punto di riferimento in ordine ai valori, al progresso e alla promozione umana.
Una fierezza di questo tipo non è stupido orgoglio o autoreferenziale “complesso di superiorità”, oggi diffusa caratteristica di varie ideologie, ma piuttosto giusto riconoscimento di una storia ricca di bene e custode di vera speranza per l’umanità. Si sa che i rami devono crescere ed espandersi, ma le radici stanno ferme ed hanno il compito di alimentare e sostenere il grande albero.

Bernardo di Chartres affermava che “siamo come dei nani sulle spalle di giganti” ed oggi una tale umile, intelligente e feconda consapevolezza sembra essere soppiantata da un approccio sedicente “nuovo”, che si ostina a voler tagliare assolutamente con tutto ciò che precede per avvalorare soltanto ciò che risulta da un inesorabile “processo” senza fine. Si tratta di un processo tipicamente hegeliano, che ritiene l’agognata sintesi frutto di elementi antitetici alla ricerca di una via comune o meglio di un compromesso comunque mai definitivo e sempre suscettibile di ulteriore evoluzione. Viene spacciata come una visione finalmente liberante, ma l’idea che la verità nasca dal basso, la negazione che Dio l’abbia rivelata e affidata alla Chiesa, la sensazione che l’uomo in fin dei conti sia solo e sempre più isolato crea una pericolosa e triste situazione di angoscia, ben rappresentato dal famoso dipinto “l’urlo di Munch”, rappresentazione di uno smarrimento che si consuma nella solitudine e nella fatica di stare in un contesto se non ostile perlomeno estraneo.
Situazione ben distante dalle magnifiche sintesi cristiane in cui, a partire dal riferimento a Dio, tutto il creato e la storia trovano non solo ricapitolazione, ma compimento pur nella faticosa esperienza del limite e della fragilità anche drammatica.
Per quanto mi riguarda il pensiero conservatore, connaturale - spero di aver lasciato intuire il perché - alla fede cattolica, è una strada possibile, vera e autentica, affatto relegata ad una concezione nostalgica o museale della vita e della storia, ma davvero capace di pensare e generare futuro. Non tanto e non solo il futuro di limitata gittata concepito come esito di un cieco progresso tecnologico, ma come appassionata e obbedienza ad un disegno concepito da Dio, scritto nel cuore dell’uomo e consegnato alla Chiesa di Cristo. Un futuro affidato ad un uomo intelligente, libero e creativo, capace di sognare e di lavorare, persuaso che non ci si possa muovere nella convinzione che il mondo debba giudicare la fede, ma piuttosto nella giusta consapevolezza che è la fede a giudicare il mondo. È una sfida da riprendere in mano con linguaggio e attenzioni nuovi e con l’avvertenza di custodire gelosamente il tesoro di sempre.

Mi avvio alla conclusione porgendo ancora qualche riflessione in riferimento al concetto di identità, per il quale mi piace assumere la categoria del “volto”, un segno che costituisce anche l’espressione di ogni autentico cammino cristiano.
Ogni esperienza di Dio e di fede, è esperienza di un volto, come bene descrive il Salmo 27: “Cercate il mio volto. Il tuo volto Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto”. Concretamente la ricerca del volto di Dio è il cuore di ogni itinerario di fede, come mostra la storia di Mosè. Egli è “una figura a cui è collegato in modo del tutto speciale il tema del “volto di Dio” (Benedetto XVI). Nel Libro dell'Esodo si legge: “Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico” (Es 33, 11). Eppure quando Mosè chiede a Dio: “Mostrami la tua gloria!”, la risposta di Dio è decisa: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome… Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo… Ecco un luogo vicino a me… Tu vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere” (Es 33, 18-23).
È una bella metafora del senso della vita e dell’incontro con Dio.
Ma il volto non rimanda soltanto a Dio e alla fede. Esso è anche immagine dell’uomo nella sua più profonda identità. Si dice che l’uomo abbia un volto, ma è più giusto affermare che l’uomo “è un volto”, come ha ben intuito Emmanuel Lévinas. In effetti, il volto - come del resto il nome - riguarda l’identità della persona, perché la determina, la mostra e la pone in relazione.
 
Senza un volto non saremmo nulla!

Un’ultima ragione per cui ho pensato al volto è che, spesso, grazie a Dio, il nostro lavoro e la nostra storia sono un intreccio di volti.
Secondo l’antico racconto della creazione, l’uomo viene introdotto sulla scena del mondo in questo modo: “E il Signore Dio formò Adamo dalla polvere della terra ed alitò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne un essere vivente” (Gn 2, 7).
 
Questo è il volto dell’uomo: anzitutto l’uomo è Adamo, cioè “ polvere, argilla”. Ciò indica che è segnato dalla fragilità e dal limite. È molto saggio ricordare questa verità essenziale perché la presunzione abbaglia mentre soltanto chi ha il senso del limite resta umile e può sempre proseguire con fiducia. Il senso del limite rende consapevoli che l’umano è sempre influenzato dalla parzialità nei pensieri e nei progetti. Un bagno di realtà rispetto alla precarietà delle nostre intenzioni e delle nostre opere deve renderci discreti e umili nel rapporto quotidiano con gli altri.
Nel prosieguo di quel racconto troviamo una domanda di perenne attualità. Per introdurla, vorrei citare una pagina di Martin Buber ne “Il cammino dell’uomo”. Buber parte proprio dalla domanda di Dio ad Adamo: “Adamo, dove sei?” (Gn 3, 9) e scrive così:
“Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo... Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento... l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica... Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata... A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda”.

Davanti a questa domanda non dobbiamo fuggire. Ogni uomo, come ogni comunità e anche la società intera, è interpellato come Adamo. Non possiamo sottrarci alla responsabilità della vita e delle scelte che ci sono richieste, anche se siamo segnati dalla precarietà e dal limite. Fuggendo, si rischia di trasformare l’esistenza in “un congegno di nascondimento”, che di giorno in giorno diventa sempre più problematico, come purtroppo evidenziano i tristi risultati del pensiero debole, che connota il nostro tempo. La domanda di Dio “dove sei?” distrugge questo congegno e può indicare la strada giusta.
È l’imprescindibile punto di partenza, sia a livello personale che comunitario: chi siamo, dove siamo e come siamo in un mondo che cambia, nella famiglia che si sgretola, tra i poveri che, nonostante il progresso, aumentano a dismisura? Chi siamo e dove siamo anche come classe politica, nel cammino di fedeltà a Dio e di fedeltà al suo progetto sull’uomo? Come siamo nel vortice di un mondo sempre più smarrito, “sazio e disperato”? Dove siamo? E’ anche a questo che siamo chiamati a rispondere in questo breve e intenso incontro.

Il secondo aspetto della domanda di Dio ad Adamo. Adamo dove sei? significa abbandonare la concezione che Dio possa essere “lontano”, oltre il nostro limite e il limite delle nostre opere. Al contrario Egli abita e si manifesta proprio là dove noi siamo: nella storia e nella vita.
Nel contesto preciso dove siamo risplende il volto di Dio. Cito ancora Buber: “... nella situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno dopo giorno, in quello che la vita quotidiana mi richiede: proprio in questo risiede il mio compito essenziale, lì si trova il compimento dell’esistenza messo alla mia portata... Quand’anche la nostra potenza si estendesse fino alle estremità della terra, la nostra esistenza non raggiungerebbe il grado di compimento che può conferirle il rapporto di silenziosa dedizione a quanto ci vive accanto.
 
Quand’anche penetrassimo nei segreti dei mondi superiori, la nostra partecipazione reale all’esistenza autentica sarebbe minore di quando, nel corso della nostra vita quotidiana, svolgiamo con santa intenzione l’opera che ci spetta. E’ sotto la stufa di casa nostra che è sepolto il nostro tesoro”.
La Bibbia ci parla di conversione e intende proprio questo. Conversione vuol dire ritorno, termine caro ai profeti, che predicavano nel ritorno alla fedeltà, alla propria vocazione il segreto di ogni autentica trasformazione del mondo. Le lotte con gli altri hanno sempre radici in se stessi ed è soltanto riconciliandosi con se stessi e con la propria vocazione che possiamo recuperare responsabilità l’uno di fronte all’altro.
Dobbiamo impegnarci a far nuovamente entrare Dio nella vita degli uomini e della comunità sociale. Oggi in generale, senza dimenticare i tesori di bene, che non mancano, l’umanità con le sue crisi e le sue disobbedienze è lì sotto i nostri occhi e sotto gli occhi di Dio: non dobbiamo nasconderla o simularne una ingiusta approvazione, ma trasfigurarla, mettendola nelle mani del Risorto, che può strapparla alla morte. Riscoprire e riaffermare la centralità di Dio negli impegni quotidiani e nell’edificazione di una società pacificata e giusta significa restituire senso alla vita. È sempre, ma oggi più che mai, un compito non solo necessario, ma indispensabile.
 
Affannati come siamo nelle opere sociali e nell’impegno politico, nello sforzo della costruzione di una convivenza a misura d’uomo - indubbiamente intenzioni encomiabili - rischiamo spesso di dimenticare che solo la ricerca del volto dà senso compiuto ai nostri sforzi e può condurre al superamento di quelle voragini di smarrimento e di vuoto, di inconsistenza e di abbandono, in cui tende a dissolversi l’umanità.

Il pensiero che domina anestetizzando le coscienze, le mode che tanto inquinano soprattutto i nostri giovani e i poteri vari che puntano con ogni mezzo a cancellare ogni riferimento trascendente, giudicheranno forse assurdo e impraticabile che oggi, così immersi come siamo negli impegni e nelle responsabilità, si torni a parlare della centralità di Dio a fondamento di una vera e ritrovata identità dell’uomo. Ma io penso che qui si gioca il futuro di tutti: delle persone come della società, della Chiesa stessa, agitata violentemente dal vento del rifiuto di Dio, e di ogni impegno politico che voglia dirsi ed essere autenticamente cristiano.